
“…Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama.
Tiziano Terzani
È sporca, è povera, è infetta; a volte è ladra e bugiarda, spesso maleodorante, corrotta, impietosa e indifferente. Eppure, una volta incontrata non se ne può fare a meno. Si soffre a starne lontani. Ma così è l’amore: istintivo, inspiegabile, disinteressato…”
Il mio viaggio nel cassetto ha dormito lì per tanto tempo. Non lo sapeva neppure di essere il mio viaggio nel cassetto. Era qualcosa che stava lì, tra la polvere e le scartoffie, tra le matite colorate, qualche vecchio scontrino, qualche fotografia. L’India non è una destinazione che molti scelgono, perché forse non è la più bella, la più immediata, la più semplice. È fatta di contrasti, di sfacciataggine, carica di significati, traboccante di odori, di rumore, di preghiera, di templi, di fame. Incarna ogni aspetto dell’esistenza e lo accetta con una naturalezza impressionante.
Un viaggio dentro se stessi
L’India è un viaggio che si intraprende prima dentro se stessi, affacciandosi a scrutare nella propria anima, per essere pronti ad accogliere tutto quello che, nella sua tangibile miseria, ha da offrire. Non si può partire per l’India senza essersi avvicinati ai suoi concetti più profondi, alla sua fede così complessa trascritta nei Veda. Senza capire quanto sia tragico il ciclo del Samsara, senza sapere perché le vacche sono sacre.
Forse la sento così affine perché così schietta e difficile da comprendere. Perché non ha mezze misure e chi la ama la ama davvero e con tutto se stesso. Forse non sono ancora partita perché quando lo farò voglio affrontare questo viaggio con un bagaglio emotivo che mi consenta di farlo. Voglio che i miei occhi siano pronti a ricevere tutto. La bellezza, la sporcizia, la luce, i colori, le ombre, i sorrisi, la miseria, la fame. Voglio che la mia anima sia aperta ad un mondo così diverso da quello occidentale e che per questo mi cattura, mi affascina, mi rapisce, mi attrae, dandomi l’opportunità di accrescere quello che sono, di essere una persona migliore.
Ci sto lavorando! Nel frattempo vi racconto qualcosa dell’India ed in particolare della meta che sarà il mio viaggio, al momento opportuno, la destinazione più sacra dell’India, il suo “omphalos”, il suo sangue, le sue arterie sacre che partono dal Gange ed irrorano tutto il paese: Varanasi.




Varanasi, India
Per ogni induista è il luogo sacro dove tutto è iniziato e dove tutto finisce. In alternanza eterna. I testi narrano che qui cadde il primo raggio di luce, accendendo la scintilla della vita.
Fondata 3500 anni fa nello stato dell’Uttar Pradesh, nota anche come Kashi, dal nome di un’erba che cresceva qui, o Benares, è una delle città più antiche del mondo ed è considerata “la città sacra” dell’induismo. I suoi antichi monarchi si identificavano con Shiva, incarnando i poteri sacro e terreno. I fedeli induisti devono recarsi qui almeno una volta nella vita, per liberarsi dal samsāra, il ciclo eterno di morte e rinascita.
Immergersi nelle acque sacre del Gange, considerato la manifestazione fisica della dea Ganga, ha l’obiettivo di purificare anima e corpo. Il legame tra il Gange e gli Indù è inscindibile, dal momento che il fiume è sempre stato il fulcro attorno al quale ruotano le esistenze. Letteralmente Ganga significa “che va veloce”. La Dea Ganga rappresenta un flusso di acque cosmiche capaci di lavare via tutte le impurità, compresi i peccati passati.
Alla Dea Madre Ganga è dedicato un rituale che si celebra ogni giorno all’alba e al tramonto sul Dashashwamedh ghat, il Ganga Aarti, durante il quale si esegue una puja, letteralmente un omaggio, un rituale di adorazione e preghiera, accompagnato da offerte di cibo o fiori e dalla luce delle lampade ad olio con lo scopo di creare una connessione profonda con la divinità.




Varanasi è una città come nessun altra, dove antiteticamente si va a morire per tornare a vivere, dove vita e morte si rincorrono, si intrecciano, si fondono, si assomigliano così tanto da non riuscire a percepire dove finisce una ed inizia l’altra. Fumo, incenso, colori, canti, tutto si unisce, si converte, si dissolve, cambia forma, muta, trasmigra, passando da uno stato all’altro, da un’esistenza all’altra. Un misticismo che permea ogni cosa, una fede che si perde tra le pieghe del tempo, in bilico tra le dimensioni, tra il tempo e lo spazio, che ammalia, che affascina, nella sua brulicante spiritualità che di svolge sui ghat.
Viaggio in India: i ghat sul Gange
I ghat di Varanasi sono le scalinate che scendono a picco sulla sponda del Gange, dove si prega, si gioca, dove i Sadhu (gli asceti induisti) meditano, le mucche riposano, dove si lavano i panni, si fanno le abluzioni e dove vengono accese le pire funebri. I 4 km del tratto di fiume di Varanasi ospita 84 ghat.
Vita e morte convivono accanto, si sfiorano, senza destare disagio o orrore. Vita e morte in fondo sono soltanto gli estremi di qualcosa che noi occidentali immaginiamo come una linea, mentre gli induisti come un cerchio, un naturale fluire delle cose.



Ogni induista deve immergersi da almeno cinque ghat diversi durante tutta la vita. Sul ghat di Assi si praticano le abluzioni mattutine e le preghiere, mentre sul Manikarnika Ghat, detto anche “burning ghat”, sono collocate le pire per le cremazioni che ardono incessantemente. Qui vengono cremati circa 250/300 corpi quotidianamente secondo un rituale ben preciso: il corpo del defunto viene avvolto in un sudario arancione per gli uomini e bianco per le donne e per i bambini e trasportato su una barella di bambù. Prima della cremazione sulla pira, il corpo viene immerso nel Gange per essere purificato.




I ghat non sono semplici scalinate, ma assumono un significato divino. Sui ghat, in prossimità delle pire, vivono gli Aghori, asceti devoti al dio Shiva che praticano forme estreme di spiritualità. Il loro nome è un termine sanscrito che deriva dalle parole A, ossia una negazione e Ghora, l’ignoranza. Praticando l’ascetismo, si allontanano da ciò che lega l’uomo alla vita materiale: le comodità e i lussi. Dormono dove capita, bevono, fumano ganja, mangiano anche l’immondizia e la carne umana, si cospargono il corpo di ceneri e sono noti per la conoscenza delle arti magiche.
I templi di Varanasi
Oltre alle rive del Gange, la spiritualità si propaga nella città incarnandosi nei numerosi templi, come quelli di Vishwanath e Durga.
Il Kashi Vishwanath è il più venerato, dedicato a Shiva, la divinità protettrice di Varanasi. Non è concesso l’ingresso ai non induisti, ma è uno spettacolo anche solo osservarlo. È conosciuto anche come “il tempio d’oro” per la placcatura sulla sua guglia.


Il tempio di Durga è colorato interamente di rosso, il colore dei sari delle donne indù nei giorni di festa, in onore della Dea, una forma di Devi, la Madre Divina. È noto anche come il tempio delle scimmie ed è l’unico in India ad avere la forma di un icosagono, un poligono con 20 lati.
Tra i ghat ed i templi “scorre” la città, confusionaria, con i suoi odori forti, i suoi vicoli stretti, dove si incontrano persone, animali, tuk tuk, ambulanti e bazar brulicanti di tessuti pregiati, oggetti sacri, sete indiane, tessuti del Kashmir, incensi e collane benedette. Ci si può imbattere anche in un edificio curioso: il Mukti Bhavan, l’hotel della liberazione. È una sorta di “hotel” dove gli induisti che stanno per morire e che possono permetterselo si recano per trascorrere gli ultimi giorni della loro vita, in attesa del moksha, la liberazione finale.
Viaggio in India: Samsara
“Samsara” è un termine sanscrito riferito al ciclo di vita, morte e rinascita nelle religioni come Buddhismo, Induismo, Giainismo e Brahmanesimo. Letteralmente significa “scorrere insieme” o “andare attraverso”. Il suo fulcro è il Karma, il principio di causa ed effetto che governa l’ordine morale e spirituale dell’universo, determinato dalle azioni fisiche, mentali o emotive che ognuno di noi compie durante la sua esistenza terrena. Le azioni positive (Punya) favoriscono l’evoluzione spirituale, al contrario le azioni negative (Papa) arrecano sofferenza e schiavitù.
Al momento della morte, ogni anima o Jivas, che secondo la filosofia indù è eterna e indistruttibile è destinata a reincarnarsi in una nuova condizione, migliore o peggiore, determinata dal bagaglio karmico accumulato, in un ciclo continuo che si perpetra fino all’estinzione del proprio debito karmico, con l’uscita definitiva dal Samsara attraverso la liberazione, il moksha (dl sanscrito “scioglimento”), la condizione verso la quale ogni induista tende per liberarsi dal Samsara, una sorta di illusione nella quale è intrappolato.
Ci sono tre strade, i Marga, da seguire per raggiungere questo scopo: la via della gnosi (jnana marga), la via del sacrificio rituale (Karma-Marga) e la via della dedizione amorosa a un dio (bhakti marga).
Nella cosmologia indù, il Samsara è rappresentato con “la ruota dell’esistenza”. Al centro della ruota ci sono i tre veleni: la cupidigia, l’odio e l’ignoranza, raffigurati come un gallo, un serpente ed un cinghiale che si mordono reciprocamente la coda a simboleggiare come ogni veleno si propaghi ciclicamente.
La ruota è poi divisa in sei spicchi che rappresentano sei mondi e stretta tra gli artigli di Yama, il signore della morte.
“…E pronunciando quella parola “immortalità”, fatta di una a privativa e di mrityo, la morte, sentivo la bellezza del sanscrito, che – mi rendevo conto – ci ha dato così la parola “a-more”: ciò che non muore…”
Tiziano Terzani